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Storia di un appuntamento mancato

CAPITOLO 3

LA QUESTIONE DEL DIVORZIO: L'ANTAGONISTA RADICALE

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Il secondo avvenimento che ha segnato in modo determinante la vita del regime democristiano porta la data del 13 maggio 1974: il referendum sul divorzio, il voto popolare che ha segnato la sconfitta storica del predominio culturale e politico clericale, che ha svuotato il regime della sua ideologia, ha dato la prova di un profondo divario tra l'evoluzione politica e culturale delle masse ed i partiti che pretendono di esprimerle e di rappresentarle.

La vicenda del divorzio faceva emergere una realtà sociale e culturale del Paese che la classe politica, pressoché nella sua interezza, si era rifiutata di verificare. Ma l'aspetto più sconcertante era rappresentato dalla scarsa capacità del mondo politico di trarre le conclusioni del voto popolare, di accettare l'insegnamento, pure così chiaro, emergente da quanto si era verificato. Dopo il voto del 12 e 13 maggio '74 nulla era più come prima, ma nulla nel mondo politico ed istituzionale fu all'altezza della nuova situazione, nessuno fu capace di interpretare adeguatamente il cambiamento ed il significato del voto e di tutta la vicenda.

Nella prospettiva consentita oggi dalla distanza nel tempo, si può dire che, paradossalmente, se il divorzio ed il referendum che ne concluse la vicenda cancellarono la credibilità intrinseca del regime clericale, della sua cultura e dei suoi presupposti, i veri sconfitti, alla distanza, furono proprio i partiti laici, che ne risultarono assolutamente inadeguati al ruolo che pure gli avvenimenti indubbiamente avevano loro offerto. Se questa affermazione non è del tutto gratuita e se invece si deve prendere atto che questa contraddizione è solo apparente, allora si può dire che è dal 13 maggio 1974 che comincia ad aver corpo l'interrogativo sul "partito che non c'è", come pure che da tale data comincia a manifestarsi un'insofferenza per il regime ed il sistema di potere imperanti. Insofferenza che non è più riconducibile alla contrapposizione tra destra e sinistra, all'opposizione di sinistra, oramai superata, anche nelle formule, dal governo di "unità nazionale" (1976-1979). La caduta di quella formula con le elezioni del 1979 non comportò il ritorno allo "status quo ante", all'emarginazione del PCI, oramai inserito saldamente e per più versi nel sistema.

Ma torniamo alla vicenda del divorzio. Se si può dire che proprio i partiti laici portarono e portano il peso e la perdita di credibilità derivante dall'aver lasciato senza adeguati sviluppi, senza uno sbocco consequenziale sul piano dell'assetto del potere, delle maggioranze e degli schieramenti parlamentari, la vittoria del divorzio nel referendum del '74, ciò avvenne anche perché essi non furono protagonisti della vittoria divorziata e tanto meno ne ebbero l'iniziativa.

Al contrario essi, con le debite eccezioni di taluni loro esponenti ritenuti dei monomaniaci del divorzio, ritennero il divorzio una tegola caduta sulle loro teste, capace di guastare i buoni rapporti con la DC e di metterne in pericolo la lenta evoluzione progressista e "liberale" e la stessa sua scelta in favore di schieramenti di centrosinistra. La Malfa si espresse più volte, in privato, in questo senso, ma con toni addirittura catastrofici. Ed a conclusione della campagna per il NO al referendum, nel comizio di Piazza del Popolo in Roma, uno degli esponenti dei partiti laici non trovò miglior argomento a favore del divorzio, che affermare che una vittoria antidivorzista avrebbe reso più difficile la formazione di un governo stabile di centrosinistra attorno alla Democrazia Cristiana.

Sembra che Enrico Berlinguer avesse previsto la sconfitta divorzista al referendum. Ma la tiepidezza "laica" e comunista nei confronti di questa battaglia si manifestò essenzialmente nelle prime battute, quando la legge dovette affrontare il percorso parlamentare pieno di ostacoli e di trabocchetti.

Il Partito Socialista aveva consentito a Loris Fortuna di presentare il progetto di legge nella convinzione che, esso avrebbe. rappresentato nulla più che una esercitazione ed una espressione di buona volontà di un parlamentare socialista. Se le cose andarono diversamente ciò fu dovuto a due fatti: la campagna divorzista del settimanale ABC e del suo editore e direttore Sabàto e la formazione e le iniziative della LID, Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio.

La campagna di ABC fu essenziale nelle primissime battute. Si trattava di un periodico allora considerato poco meno che pornografico e la campagna che condusse ebbe toni non certo raffinati e parecchio approssimativi. Ma la distribuzione di cartoline da inviare al Parlamento per chiedere la discussione e l'approvazione della "legge Fortuna", che a migliaia giunsero a destinazione, consentì di rivelare una realtà sociale ed una determinazione ampiamente diffuse ed insospettate.

La costituzione della LID diede alla battaglia divorziata una strategia ed una massa di manovra svincolate dai partiti, agili e libere da remore e condizionamenti.

La LID nacque per iniziativa esclusivamente radicale, ma puntò subito a raccogliere adesioni senza filtri, selezioni ed esclusioni. Vi aderirono missini e comunisti, liberali e cattolici, monarchici e socialisti, senza che a nessuno fosse domandato se e quale tessera avesse in tasca.

Aderì soprattutto tanta gente che non si era mai sognata di impegnarsi politicamente e che dimostrò invece intuito e capacità di orientamento.

L'idea della costituzione della LID, caso unico tra le iniziative radicali, non fu di Pannella, che rimase estraneo anche ai primi passi della complessa fase organizzativa. Egli si trovava in Algeria nel dicembre del 1965 quando, in un convegno al Ridotto dell'Eliseo, chi scrive svolse una relazione sulla strategia per giungere all'approvazione di una legge sul divorzio "costringendo" le forze politiche laiche a non sottrarsi al compito di rappresentare una società civile e matura e di dar corpo alle richieste di una opinione pubblica destinata a divenire maggioritaria. Incominciò allora la raccolta delle adesioni e dei fondi (sempre striminziti) con una specie di "catena di Sant'Antonio" per la creazione di un indirizzario di "separati" e la creazione del primo nucleo di iscritti.

L'adesione di Loris Fortuna, con l'accettazione di far parte della presidenza, non avvenne senza qualche perplessità e diffidenza iniziale. Anche Sabàto non sembrò entusiasta della nascita della LID e poi si rifiutò a lungo di mettere a disposizione di essa l'indirizzario dei sottoscrittori delle famose cartoline. Le indubbie capacità tattiche di Pannella, che entrò a far parte della segreteria, e la pervicacia che anche allora non gli faceva difetto, assieme, peraltro, ad un certo senso di equilibrio, riuscirono a superare molte difficoltà e, man mano che cresceva il movimento divorziata e la pressione sui partiti, a dirimere contrasti, diffidenze e gelosie tra i partiti dell'area divorziata.

Anche qui non è il caso di tentare una storia della battaglia per il divorzio, vicenda che tuttavia rievochiamo, perché da essa nasce non solo la coscienza inappagata, lo spazio per un partito laico, ma anche il tentativo di realizzare una forza politica adeguata a tale ruolo: il Partito Radicale.

Come era stato solo nell'iniziativa per dar vita alla LID, il Partito Radicale, fino allora costituito da un gruppo ristrettissimo di giovani, senza alcuna rappresentanza istituzionale, senz'altro avere che una sigla e molta fantasia, si trovò a combattere contro i molti ripensamenti ed i tentativi di compromesso, che giunsero al limite di un'offerta di resa proprio alla vigilia del referendum, solo, assieme alla LID, contro la quale non mancò un tentativo, fallito, di impossessamento da parte del PSI.

La vocazione compromissoria dei partiti dello schieramento divorziata si manifestò con proposte aberranti, che andarono dalla limitazione del divorzio ai soli matrimoni civili, al rinvio della legge al momento della revisione del Concordato, all'abrogazione della legge Fortuna, già approvata, per sostituirla con un'altra che rendesse il divorzio quasi impraticabile, ad un doppio regime per i matrimoni civili e per quelli concordatari con l'obbligo, per questi ultimi di far precedere il divorzio da un esame dell'eventuale nullità del vincolo da parte dei tribunali ecclesiastici!

In realtà la Chiesa non era affatto disposta a compromessi, confidando in una schiacciante vittoria al referendum. Meno convinto sembrava Andreotti, che fu abilissimo nell'indurre i "laici" a proposte di compromesso sempre meno decorose, ottenendo al contempo il loro apprezzamento (che gli fu poi utilissimo) e provocando manifestazioni di debolezza e di mancanza di chiarezza di idee che certamente non giovarono alla causa divorzista ai fini del voto.

Fu quella di Andreotti una "manovra in ritirata" degna di un grande stratega, i cui effetti si videro poi, dopo l'esito del referendum, quando si trattò di far fronte alla caduta verticale della credibilità del partito cattolico, in ordine agli assetti di potere. Allora le profferte di compromesso che laici, socialisti e comunisti avevano continuato ad avanzare offrendo la revisione-conferma del Concordato per "sanare la ferita" del divorzio, rappresentarono la premessa per la mano tesa alla DC per uscire dal guado con i governi di unità nazionale della settima legislatura, con il compromesso storico di Enrico Berlinguer e, in sostanza, con il riconoscimento da parte di tutte le forze politiche tradizionali della continuità necessaria del ruolo della DC. Un ruolo che, tramontato il mito dello zoccolo duro clericale e dell'impenetrabilità delle masse cattoliche, era ormai legato alla continuità ed all'autoconservazione per se stesse, agli strumenti del potere, al dominio ed al taglieggiamento degli interessi economici, alle clientele, alla capacità di aggregazione consociativa e lottizzatoria ampiamente collaudata.

A fare le spese di questa operazione, che consentì il salvataggio del regime DC privo oramai del supporto che ne aveva segnato la nascita e lo sviluppo, furono proprio i partiti laici, i terzi neppure incomodi del compromesso storico, la cui incapacità di assumere il ruolo loro offerto dalla vicenda del divorzio fu avvertita, seppure confusamente, dall'opinione pubblica, che li punì duramente alle elezioni del 1976.

Proprio in quella tornata elettorale facevano il loro ingresso in Parlamento i Radicali con un gruppo minuscolo, che tuttavia ebbe una parte importantissima nella storia della settima legislatura.

Lo scioglimento anticipato delle Camere elette nel '72 era intervenuto sotto la pressione del nuovo referendum, indetto questa volta per iniziativa radicale e di gruppi femministi, sulla depenalizzazione dell'aborto, referendum che si volle evitare ricorrendo, appunto, allo scioglimento anticipato dei Parlamento. La questione dell'aborto costituì per la riuscita dell'operazione elettorale radicale una leva assai efficace. Anche se, poi, quella battaglia, cui mancò sempre la chiarezza di impostazione che aveva contraddistinto quella del divorzio, ebbe uno sbocco assai pasticciato, il ripetersi della soccombenza democristiana accentuava la sensazione dello sfaldamento dei presupposti culturali del regime.

Al congresso radicale di Firenze del novembre 1975, dopo la vittoria nel referendum del 13 maggio dell'anno precedente, io cercai di fare una valutazione della situazione politica determinatasi con quell'evento ed affermai che il clericalismo era da considerarsi morto, ma che il suo cadavere doveva essere sepolto, perché i cadaveri insepolti provocano infezioni ed epidemie. Quello fu giudicato un discorso truculento, di vecchio stampo anticlericale (La Nazione). Se qualcuno volesse oggi interrogarsi ed interrogare la storia più recente sull'origine della degenerazione partitocratica e sulla sua accelerazione negli ultimi anni, dovrebbe riconoscere che quell’affermazione non era affatto espressione di intolleranza o di retorica demagogica e che da allora il corrompimento del sistema di potere è andato sviluppandosi fino a divenire caratteristica essenziale di esso.

Le vicende del periodo dei governi di unità nazionale, che potrebbe considerarsi quello del salvataggio della DC e della riconversione dei suo sistema di potere, sono state tra le più torbide ed inquiete della Repubblica. Il Terrorismo, il Golpismo, l'Antiterrorisnio e l'Antigolpistno, la P2 (che prosperò proprio con i governi di unità nazionale) finirono per portare acqua alla causa della conservazione e del consociativismo, lasciando aloni torbidi e lasciando intravedere retroscena tuttora assai malamente e faziosamente esplorati.

L'infezione stava veramente dilagando e guadagnava in profondità. Lo scandalo della Lockeed, la condanna di Tanassi, le dimissioni di Leone, non ebbero affatto il valore sintomatico di una rinnovata capacità di reazione alla corruzione, ma, invece, della strumentalità di ogni intervento contro singoli episodi, tale da aggravare la sfiducia della gente.

La presenza radicale in Parlamento rappresentò un fatto nuovo e scioccante. Per la prima volta nella storia della Repubblica una formazione interamente nuova, che non fosse uno spezzone di un'altra preesistente, riusciva a rompere il muro della continuità e del "privilegio" dei partiti tradizionali. Il fatto che questa novità intervenisse proprio mentre i partiti laici uscivano malconci e castigati dalla prova elettorale e mentre il bipolarismo DC - PCI sembrava compiere con il "compromesso storico" e con il governo di unità nazionale un passo avanti determinante, rendeva ancor più rilevante e significativa la presenza radicale. Le altre forze rimaste fuori della maggioranza, prima quella "delle astensioni", poi quella più propriamente "di unità nazionale", non seppero e non poterono svolgere un ruolo altrettanto significativo ed autonomo.

La discussione della legge sull'aborto, il referendum contro la legge Reale e quello sul finanziamento pubblico dei partiti, l'ostruzione contro la "Reale bis", legge che avrebbe dovuto "scongiurare il referendum" aggravando i contenuti di quella di cui si proponeva l'abrogazione con voto popolare, la posizione chiara e netta assunta nel dibattito sul Concordato, il rigetto sia di ogni condiscendenza e vezzeggiamento nei confronti dei terroristi e delle varie manifestazioni di violenza, sia di ogni legislazione di emergenza e, soprattutto, l'estraneità ad ogni operazione di sottogoverno, lottizzazione ed affarismo, avevano fatto sì che, malgrado ogni deficienza ed ogni deformazione da parte della stampa e dell'informazione radiotelevisiva dell'opera svolta in Parlamento, il Partito Radicale assumesse, agli occhi di una porzione sempre più rilevante della pubblica opinione, il ruolo del vero partito laico di opposizione, ma anche dell'antipartito, rispetto al concetto deteriore di partito e di partitocrazia che si andava diffondendo.

La partecipazione dei quattro deputati radicali ai lavori parlamentari, complessivamente assai intensa e qualitativamente rilevante, dava del partito un'immagine diversa da quella del gruppo contestatario perduto nell'astrattezza delle ideologie, allora più che mai di moda, e attribuita volentieri fino ad allora anche ai radicali.

In mezzo ad avvenimenti drammatici ed a vicende poco limpide prendeva corpo il regime DC della fase dopo-referendum, non più sorretto dalla passiva accettazione della cultura clericale da parte del Paese, né dalla necessità della "diga" anticomunista concepita secondo la logica e gli schemi di Yalta e della guerra fredda, ma forte tuttavia dell'accettazione da parte di quasi tutte le forze politiche e della padronanza di strumenti di potere e della capacità di abusarne, tale da sovrapporsi alle istituzioni ed alla legalità formale. La coscienza del deterioramento, della corruzione del sistema politico e del meccanismo dei partiti, che andò parallelamente diffondendosi tra la gente, malgrado le generalizzazioni, gli alibi, la confusione prodotta dallo spregiudicato uso del potere di informazione, poté giovarsi di un punto di riferimento positivo, costituito da questa nuova formazione politica. La sua "diversità", ampiamente riconosciuta, e il suo indiscusso impegno per i diritti civili senza strumentalizzazioni e discriminazioni, richiamarono su di essa l'attenzione ed il consenso di settori diversi della pubblica opinione.

Se in quegli anni avesse dovuto porsi con altrettanta intensità la questione della reazione alla partitocrazia, al deterioramento dei partiti che oggi è al centro di ogni discussione sulle sorti politiche del Paese, non avrebbe potuto parlarsi di "partito che non c'è". C'era il Partito Radicale, l'antipartito, il partito diverso, incorrotto, espressione di una fede liberale e libertaria non offuscata dai compromessi né annacquata per le sudditanze e la rassegnazione. Era lecito sperare che il tempo e la costanza avrebbero fatto superare a questo partito lo svantaggio della sua piccolezza e della sua fragilità. Se non era il partito capace di rinnovare il sistema politico, di spazzar via la corruzione e la prevaricazione istituzionalizzate, sembrava tuttavia capace di diventarlo. Diventarlo nel momento giusto, quando lo scollamento e la corruzione del regime fossero giunti al momento critico, crescendo senza perdere slancio, fantasia e chiarezza dell'immagine e, soprattutto, senza perdere coscienza del ruolo da svolgere. Occorreva certamente tenacia. E pazienza.


CR Critica Radicale - 16/03/13 - E-mail: info@eclettico.org