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"...eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerá nuovamente al bene,che ritorneranno l'ordine, la pace, la serenitá"Annalies Marie Frank
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Una pace uccisa dall’incomprensione reciproca

Il Sole – 24 Ore, 14 Ottobre 2000

di Ugo Tramballi

 Poiché prima o poi questa follia israelo-palestinese finirà, cosa ne sarà del processo di pace? Quando si sederanno di nuovo attorno a un tavolo, cosa troveranno i negoziatori di ancora negoziabile? L’altra sera Ehud Olmert, sindaco di Gerusalemme, dirigente del Likud e possibile candidato a primo ministro ad una prossima elezione sosteneva che certamente non si tornerà al punto in cui questa guerra l’aveva lasciato. E che comunque ci dovrà essere una lunga sospensione.

Olmert non ha mai militato nel campo della pace, è un sostenitore dell’indivisibilità di Gerusalemme. È normale che la pensi così. Ciò che stupisce è che ormai siano d’accordo con lui i ministri del governo laburista di Barak, la gran parte della base e dell’elettorato del partito, i giornalisti, gli intellettuali. Tutto quel fronte eterogeneo della pace, la sua sezione più moderata e quella più radicale, si è ritirato: nel migliore dei casi nel silenzio, nel peggiore annunciando di essere d’accordo con Ariel Sharon.

Depressione e disillusione sono gli stati d’animo generali; che i palestinesi ed Arafat non siano interlocutori credibili è la certezza. Tutto questo nasce dalla convinzione di aver fatto tutto il possibile. Nessun altro governo della storia d’Israele aveva offerto tanto ai palestinesi, dicono: è una verità inconfutabile, a Camp David Barak aveva incominciato persino a violare il principio dell’indivisibilità di Gerusalemme. Ed è anche un’affermazione fatta in onestà intellettuale: davvero gli israeliani sono convinti di avere offerto molto ai palestinesi. Ma quello che è il massimo per gli israeliani in realtà è il minimo per i palestinesi. E questo non è un problema del negoziato ma il problema del lungo conflitto tra i due popoli. Il dramma non è constatare quanto il massimo israeliano e il minimo palestinese siano lontani: la tragedia è che dopo quasi cento anni di convivenza, di conflitti e quasi dieci di processo di pace, israeliani e palestinesi ancora non si conoscono.

 Stupendosi che i palestinesi abbiano respinto le offerte di Barak e di Clinton, gli israeliani dimostrano di non conoscere la realtà ella quale vivono i palestinesi. A Ramallah, Nablus o Gaza i palestinesi possono fare i loro affari: ma sono molto pochi perché le città in cui vivono sono gabbie isolate. Dopo tanto dialogo di pace, se gli israeliani vogliono possono impedire a un abitante di Ramallah di andare a Nablus. I palestinesi non sono liberi di produrre né di esportare ciò che vogliono perché le loro ipotetiche frontiere sono controllate da Israele. E infine non si riconosce che per quanto non democratico sia il suo governo anche Arafat ha un’opinione pubblica che non avrebbe accettato il massimo israeliano.

In uguale misura – almeno c’è qualcosa su cui gli uni e gli altri sono sullo stesso piano – i palestinesi non conoscono gli israeliani. Nonostante sia vissuto trent’anni in esilio e abbia provato tre anni di governo con Binyamin Netanyahu in queste due settimane di battaglia Arafat non si è chiesto quanto stesse danneggiando la posizione di Barak. Se l’essenza della sua lotta e il sostegno internazionale che riceveva erano la possibilità di avere un autogoverno palestinese in Palestina, consentendo il linciaggio dei tre israeliani ha dimostrato di non saper governare.

Ma questa è l’incomprensione delle leadership, conseguenza diretta della totale incomprensione fra i due popoli. Gli israeliani si sono stupiti del rifiuto palestinese ma non si sono chiesti da dove venisse tanta frustrazione e tanta furia. E i palestinesi, dopo tanti anni, non hanno capito dove scavano le profonde radici d’Israele. L’Olocausto è un tabù culturale che non appartiene a loro ma all’Occidente: anche davanti all’israeliano che ha ucciso ventinove arabi nella moschea di Hebron, noi non diremmo mai "assassino ebreo". I palestinesi sì, ma senza attribuire alla definizione un valore razziale. Tuttavia non capire che l’Olocausto è parte fondante della storia d’Israele, continuare a cantarne per le strade la distruzione; non capire quanto sia profonda l’esigenza di sicurezza dello stato ebraico, significa ignorare ciò che invece è essenziale conoscere. La gioia della folla che l’altro ieri massacrava i tre soldati israeliani sembrava più bestiale di quanto già sia un linciaggio.

 

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Ultimo aggiornamento: 16/01/10