Un carrello sfreccia fuori controllo e sta per investire cinque ignari operai delle ferrovie. Voi siete davanti a uno scambio e potete deviarlo su un altro binario, dove, tuttavia, esso ucciderà un operaio anch'esso ignaro del pericolo. Dovete farlo, salvando così cinque vite al costo di una? La maggior parte delle persone dice di sì, e non si tratta soltanto di lettori di riviste di filosofia che annuiscono con un cenno del capo, ma, in un esperimento di massa condotto da Mare Hauser, di quasi il novanta per cento delle centocinquantamila persone che, in più di un centinaio di paesi, hanno accettato di riflettere sul dilemma e di condividere le loro considerazioni sul suo sito Web.
Ora immaginate di essere su un ponte sovrastante i binari e di vedere il carrello impazzito che sta per investire i cinque operai. L'unico modo per fermarlo è gettare qualcosa di pesante sul suo percorso. E l'unico oggetto pesante a portata di mano è un tipo grasso accanto a voi. Dovete buttarlo giù dal ponte? Entrambi i dilemmi mettono di fronte alla scelta se sacrificare una vita per salvarne cinque, e quindi, in termini contabili, sono moralmente equivalenti. Ma la maggior parte delle persone, in tutto il mondo, non li considera equivalenti. Se nel primo dilemma azionerebbero lo scambio, nel secondo non butterebbero di sotto il tìzio grasso. Interrogate sul perché, non riescono a tirare fuori qualcosa di coerente, ma non ci riesce nemmeno la maggior parte dei filosofi morali.
Joshua Greene, che è sia un filosofo sia un neuroscienziato cognitivo, avanza l'ipotesi che l'evoluzione abbia implementato in noi una ripugnanza all'idea di recare pregiudizio a un essere umano innocente e che questo sia più forte di ogni calcolo utilitaristico sul numero di vite salvate o sacrificate.
L'impulso contrario a nuocere a una persona spiegherebbe altri casi in cui ci si tira indietro di fronte all'uccisione di un essere umano per salvarne molti, come, in un ospedale, praticare l'eutanasia a un paziente per espiantarne gli organi e salvare cinque persone che, senza trapianto, sono destinate alla morte, o, in un nascondiglio in tempo di guerra, soffocare un neonato per evitare che i suoi strilli attirino i soldati che ucciderebbero tutti, neonato incluso. A sostegno di quest'idea, Greene, insieme al neuroscienziato cognitivo Jon Cohen, ha monitorato il cervello dei suoi soggetti mentre meditavano su vari dilemmi, scoprendo che quelli che richiedevano di uccidere una persona con le proprie mani attivavano aree cerebrali associate all'emozione, oltre che altre legate alla risoluzione dei conflitti.
Nelle nostre riflessioni su un profondo dilemma morale, vediamo insomma l'inconfondibile impronta di un'impostazione mentale da dinamica delle forze. Uno scenario in cui l'attore è un antagonista e la sua vittima sacrificale (il tizio grasso) un agonista, significato prototipico dei verbi causativi, suscita un'emozione che sopraffa il calcolo sulle vite salvate e sacrificate, mentre lo scenario alternativo, in cui l'attore si limita a permettere l'azione di un antagonista (il carrello ferroviario), no.
Questo significa che la nostra impostazione mentale da dinamica delle forze ci rende irrazionali in ambito morale? La palese differenza tra causare e permettere contamina la nostra etica e rende le nostre intuizioni inaffidabili? Non necessariamente. Noi diamo valore alle persone non soltanto per quello che fanno, ma per quello che sono. E una persona capace di buttare giù da un ponte un uomo che si dibatte o premere uno straccio contro la bocca di un neonato finché non smette di respirare è probabilmente capace di altre azioni orripilanti non giustificate da calcoli su vite salvate e sacrificate.
Steven Pinker - Fatti di parole: La natura umana svelata dal linguaggio
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