wpe2.jpg (4456 byte)La diaspora radicale
Home Su Link Libri on line Dentro i radicali

WB00795_.gif (408 byte)

Marco Pannella
un eretico liberale nella crisi della repubblica-
on line

La dialibro.1.gif (105157 byte)spora radicale

 

 

WB00787_.gif (14450 byte)

Un'irresistibile pulsione alla dissoluzione

Come si spiega che Pannella, campione del liberalismo, ha affrontato disarmato il crollo del regime nonostante avesse tutti i numeri per divenire un riferimento del nuovo corso che si annunciava all'insegna della liberalizzazione della politica? Per tentare una risposta occorre capire perché il leader radicale ha voluto dissolvere la forza politica da lui stesso creata facendo esclusivamente affidamento sulla propria solitaria leadership. Il suo è stato un puro caso in cui la personificazione politica spinta oltre ogni misura, da potenziale elemento di forza è divenuta effettiva debolezza.

Non si deve dimenticare che Pannella è sempre stato il capo radicale riconosciuto e in questa sua funzione, oltre che nell'immagine, non è mai stato seriamente insidiato: nel PR ha assolto fin dall'inizio le molteplici funzioni di fondatore, organizzatore e gestore che gli hanno assicurato un controllo completo delle più importanti operazioni politiche. Quel che era andato modificandosi nel corso del tempo riguardava i connotati del piccolo e singolare partito fattisi più complessi della semplice identificazione con il leader: il pannellocentrismo era divenuto solo una parte di una realtà più articolata costituita da militanti e quadri politici.

Con lo svolgimento annuale dei congressi e con la continua formazione di gruppi ad hoc per perseguire obiettivi particolari, già a metà degli anni settanta i radicali disponevano a tutti gli effetti di una forza politica consolidata attraverso successive stratificazioni. E dopo il '76, con gli eletti in Parlamento tra cui figuravano, di legislatura in legislatura anche personalità fortemente caratterizzate e, autonome (penso, per esempio, tra gli esterni a Leonardo Sciascia, Enzo Tortora, Gianluigi Melega e Bruno Zevi, e tra gli interni a Mauro Mellini, Gianfranco Spadaccia e Francesco Rutelli), la vita politica del PR Si faceva, per così dire, nìultidimensionale nelle istituzioni oltre che nel paese, nei gruppi militanti e nelle realtà locali oltre che con la Radio Radicale. Di questo organismo Variegato Pannella rimaneva sì l'ispiratore e la guida, ma tuttavia l'azione politica radicale non poteva più essere ridotta esclusivamente :Ala sua sola persona.

Ed è proprio questo partito in cui si inverava una realtà composita di molti individui, di plurime strutture e di una gamma di iniziative politiche, che Marco Pannella cominciò a percepire come un ostacolo percepito in maniera ambivalente. Da una parte ne avvertiva la necessità perché altrimenti non avrebbe potuto condurre la sistematica guerriglia contro la partitocrazia con azioni fortemente organizzate. Dall'altra, ne era infastidito perché lo riteneva riduttivo del proprio carisma di fronte al mondo politico e alla pubblica opinione dal momento che alcuni esponenti radicali si sottraevano al suo diretto controllo o non si comportavano da pure appendici della sua personalità.

Si aggiunga, inoltre, che nel leader si manifestava una fortissima volontà di imprimere alla vita dell'intero partito un profilo anche esistenziale. Tutto doveva, a suo avviso, identificarsi nell'atto politico senza che strutture di qualsivoglia tipo si interponessero tra gli obiettivi postulati e la loro realizzazione. Traspariva da questa concezione che improntava abitudini quotidiane quel carattere comunitario del partito secondo cui il vero collante doveva trovarsi nell'adesione alle volontà del capo. Ammaestrato dai vizi partitocratici che avevano reso la maggior parte dei partiti italiani "pesanti", Pannella coltivava la metafisica del partito "leggero", volendo a ogni costo evitare che il gruppo radicale vivacchiasse autoperpetuandosi e producesse abitudini burocratiche piuttosto che battaglie politiche. La sua aspirazione alla radicale diversità, si sarebbe appagata solo in un organismo che fosse continuamente in grado di nascere, morire e risorgere sia nelle strutture che negli uomini, e che quindi non conservasse memoria, tradizione e patrimonio ideale altri da quelli sedimentati nella persona del suo leader.

 

Queste le ragioni di fondo all'origine dello smantellamento del Partito Radicale che trovò sanzione formale al congresso di Budapest dell'89, allorché venne deliberata la fine di un'esperienza partitica con una decisione che portava a compimento un indirizzo da tempo coltivato nelle più profonde pulsioni di Pannella, come traspare dalle dichiarazioni ripetute negli anni. Già nel lontano ottobre '76 alla vigilia di un congresso sosteneva: "Se dovessi constatare che il congresso ha avuto un esito inadeguato alla necessità, io mi sento libero di mollare tutto per riconquistare da solo, senza obblighi collettivi, una diversa base di esistenza di vita, anche politica".

Più vicino alla svolta, nell'agosto '86, prima di un. altro congresso, dichiarava: "Andremo ad approvare un progetto di cessazione di attività. Per quanto mi riguarda sono fortemente determinato a difendere questa tesi... Prepariamoci a sapere che dovremo assumere le nostre solitudini e quindi le future altre amicizie, gli altri amori, le altre compagnie". In Jugoslavia, nel gennaio '88, era maturato il tempo per affermare: "Occorre un momento di rottura tra questo partito che non c'è più e un altro che non c'è ancora... Non mi chiedete di andare avanti senza rottura di continuità... E PR attraverso l'integrità del suo modo di essere è divenuto qualcosa che supplisce la chiesa cattolica, essendo una forza attrezzata a comprendere la questione del corpo". E ancora, a Gerusalemme, nell'ottobre '88, proclamava: "Occorre sbarazzarsi dell'utensile partito... Un utensile che ti divora è un cattivo utensile, diviene un feticcio, un mostro interiore". Infine, a Bruxefles, nel gennaio '89: "Occorre la chiusura di qualcosa e la costituzione di qualcos'altro. Devono intervenire nella costituente altri elementi con altre storie e patrimoni che confluiscono" (1).

A conclusione di questo percorso di Partito Radicale decideva di non essere più presente sulla scena italiana come un partito competitivo con gli altri, di non andare alle elezioni e di porre nel proprio simbolo il volto del mahatma Gandhi come insegna della nonviolenza. Era così formalmente decretata la fine della "rosa nel pugno" sotto le cui bandiere si erano raccolti tanti appassionati cittadini che per la prima volta nell'Italia repubblicana avevano vissuto una militanza civile in una dimensione laica e liberale non elitaria al di fuori delle egemonie della sinistra comunista e del mondo cattolico. Nel dissolvere il Partito Radicale che aveva realizzato con successo le più rilevanti battaglie per i diritti di libertà, Pannella conseguì un duplice obiettivo. Da una parte realizzava la sua pulsione alla rottura con un passato organizzato rimanendo il solo arbitro di una traiettoria politico-ideale, e dall'altra inseguiva nuovi progetti non privi di un nobile fascino. Il suo obiettivo era di intervenire sugli avvenimenti italiani esercitando una pressione sugli esponenti dei diversi partiti e, parallelamente, di librarsi in una dimensione transnazionale nel ruolo del paladino del diritto e della nonviolenza.

Quanto vi fosse di genuino nelle intenzioni di Pannella di conquistare una dimensione altra di partito permeando il sistema politico nazionale e internazionale senza una propria organizzazione, e in che misura, invece, quella mossa risultasse strumentale alla dissoluzione pura e semplice di un partito cresciuto troppo per poter essere tenuto completamente sotto controllo, è difficile dire. Come spesso nell'agire di Pannella, il tratto ideale e utopico si intreccia con quello politico-personale. Solo che in questo caso il primo aspetto, l'opera creativa di un superpartito al di là delle frontiere politiche e nazionali, era un obiettivo pressoché impossibile da raggiungersi - come ben presto si dimostrò -, mentre il secondo aspetto, l'opera distruttiva del partito esistente, era molto più fattibile e facile a realizzarsi.

Quindi la portata di quella scelta si rivelava, ad un tempo, più concreta e più astratta, della direttiva enunciata. La decisione di sbarazzarsi del Partito Radicale così come era andato concretandosi negli anni ottanta - un partito che elettoralmente non superava il 2 -3 % del voto popolare -, rispondeva a una valutazione di adeguatezza. Il leader era sì consapevole dell'in-iminenza della crisi di regime e della necessità di attrezzarsi per affrontarla; ma era anche convinto che avrebbe potuto creare qualcosa di adeguato - un nuovo raggruppamento possibilmente trasversale - avvalendosi della sola forza della sua leadersbip al di fuori di ogni vincolo collegiale. Riteneva un intralcio per la sua capacità di progettazione, di iniziativa e di manovra quel Partito Radicale che alle elezioni conseguiva risultati modesti e che aveva una classe dirigente qualificata ma limitata e non completamente disponibile ad assecondare i suoi impulsi.

Il progetto di trasformazione aveva dunque del titanico. Sembrava lungimirante ma risulterà autodistruttivo. Il "partito transnazionale e transpartitico", come con una formula ad effetto si autodefinì da allora il Partito Radicale, non sarebbe arrivato all'appuntamento della crisi di regime in vista della quale era stato concepito.

 

 


L'illusione transnazionale e transpartitica

La decisione di trasformare il Partito Radicale fu dunque presa in un'atmosfera brillante, quale poteva essere il congresso di un partito italiano in una Budapest tutta protesa alla liberalizzazione in senso occidentale. Ai radicali li convenuti, per lo più italiani e in misura ridotta non italiani, fu sottoposta una deliberazione innovativo: "Il partito rompe con le proprie strutture, i propri assetti, le proprie condizioni operative e direzionali divenute inadeguate rispetto alle nuove prospettive ed esigenze" (2). Anche formalmente il F-R non sarebbe più stato un normale partito italiano ma si sarebbe configurato secondo due caratteristiche inedite e distintive.

La prima - la "transpartiticità" - stava a significare che i suoi aderenti potevano e dovevano provenire da eterogenee e multiple appartenenze partitiche in quanto il PR non era più un partito che presentava propri candidati alle elezioni in concorrenza con altri. La seconda - la "transnazionalità" - voleva dire che le battaglie politiche significative dovevano riguardare obiettivo comuni a diversi paesi da perseguirsi attraverso i confini nazionali secondo un modello organizzativo che non giustapponeva gli specifici quadri nazionali ma ne prevedeva una visione unitaria. Premessa e conseguenza della nuova organizzazione politica, imperniata sui diritti civili e sulla nonviolenza, era il fatto che il Partito Radicale non sarebbe stato più presente in quanto tale con il proprio simbolo tradizionale sulla scena elettorale italiana. La sua effigie, che era stata per lungo tempo la rosa nel pugno, veniva cambiata nella raffigurazione stilizzata del volto di Gandhi, simbolo della nonviolenza, iscritto in un ottagono. Si chiudeva così per sempre la vicenda di quel Partito Radicale che aveva prodotto per quattro legislature - dal '76 al '92 - un certo numero di eletti al Parlamento nazionale mentre dietro la nuova formula si intravedeva una ben diversa portata della dissoluzione.

 

Azzerando il partito, Pannella non solo mirava a rivoltare come un guanto la sua organizzazione, ma pensava illusoriamente anche di influire sulla riorganizzazione dell'intero sistema politico italiano con l'obiettivo di provocare un rimescolamento delle carte e il superamento dei partiti esistenti. L'esempio dell'autoestinzione elettorale del Partito Radicale avrebbe dovuto servire, a suo avviso, per stimolare anche altre forze politiche a imboccare lo stesso cammino. Quando qualche anno dopo, nell'agosto del '94, un giornalista gli pose la domanda se con i referendum volesse la distruzione del PDS e delle centrali sindacali, cioè del cuore della sinistra italiana, Pannella rispondeva: "lo propongo solamente quel che noi per primi abbiamo realizzato, continuamente "autodistruggendoci", biodegradandoci, per evitare di radicarci come fazione, come coagulo di interessi e professionisti-burocrati, mettendo al centro e a ragione di unità obiettivi programmatici, ambizioni storici, duri, alternativi" (3). Era quella la stagione in cui le diverse forze politiche ridisegnavano il loro ruolo per il futuro e molti osservatori erano accomunati nell'opinione che sarebbe stata opportuna una riduzione dei troppi partiti che impedivano un buon funzionamento del sistema democratico. Però tale riordinamento politico, in mancanza di riforme elettorali e costituzionali che costringessero i partiti ad autoriformarsi, non poteva che derivare da una loro volontà soggettiva. Peraltro il PCI di Achille Occhetto, dopo la caduta del Muro, si stava trasformando e guardava con interesse a quei gruppi che potevano essere parte di una riorganizzazione unitaria della sinistra.

Così in Pannella la volontà di divenire in qualche maniera protagonista della riforma politica si collegava a una visione secondo cui i grandi problemi del nostro tempo non potevano più essere risolti nel quadro nazionale. La pace e la guerra, l'ambiente, il controllo dell'economia e la democrazia nelle istituzioni erano tutti aspetti della contemporaneità che andavano affrontati secondo prospettive che superavano i confini partitici e nazionali, a cominciare dalla questione europea e dal rapporto con i paesi ex comunisti dell'Euro a orientale che si stavano affacciando alla democrazia.

Per i radicali transpartitici una lotta politica all'altezza dei tempi avrebbe dovuto mirare, in Italia, a scompaginare la partitocrazia sclerotizzata e, nel mondo, a praticare il transnazionalismo intorno ad alcuni obiettivi significativamente cruciali. I singoli militanti radicali si sarebbero dovuti organizzare all'interno dei diversi partiti e dei diversi parlamenti nazionali, senza abbandonare le rispettive appartenenze elettorali e politiche, ma unendosi nel Partito Radicale al di là delle frontiere nazionali e intorno a obiettivi democratico-rivoluzionari.

 

L'ambizioso progetto indicato a Budapest, Pannella lo aveva già cominciato a sperimentare da tempo. Aveva teorizzato la possibilità della doppia tessera radicale come segno di un'appartenenza non esclusiva e totalizzante ma dell'adesione individuale a specifici obiettivi definiti annualmente. Verso la metà degli anni ottanta un certo numero di membri di altri partiti, soprattutto socialisti del PSI, liberali del PLI e militanti di Nuova Sinistra, avevano aderito al PR. E la stessa cosa era avvenuta nei confronti delle appartenenze nazionali con l'iscrizione di alcune decine di militanti in Belgio, Spagna, Portogallo, Francia e nei paesi dell'Europa orientale, e con la costituzione di nuclei locali che, però, non erano mai riusciti a superare una certa effimera caducità e un alto tasso di avvicendamento. A testimonianza dell'apertura di un indirizzo extraitaliano, nel '79 un obiettore di coscienza belga, Jean Fabre, era stato addirittura portato alla segreteria del Partito Radicale.

Ma in quel momento la svolta significava qualcosa di più e di diverso: l'interdizione a usare la sigla e il simbolo radicali alle elezioni italiane mutava radicalmente le condizioni di esistenza di una forza politica che aveva pur lasciato per un quarto di secolo una significativa traccia nella vicenda nazionale. La prima sperimentazione di quel che intendeva essere il nuovo PR senza una diretta presenza elettorale fu effettuata proprio alle elezioni europee della primavera '89, quando alcuni esponenti radicali si presentarono candidati all'interno di altre liste, con un'operazione che la stampa definì come la "strategia del cuculo" (4) interpretando la mossa di Pannella come tendente a depositare le propria uova nei nidi politici altrui.

Secondo questa linea, Pannella promosse e incoraggiò la disseminazione dei radicali in diverse liste tra loro concorrenti alle elezioni europee. L'operazione di maggiore respiro fu quella tentata con la costituzione di un nuovo organismo politico - la Federazione laica - che avrebbe dovuto raccogliere il PRI, il PLI e lo stesso leader radicale con l'esclusione del Partito Radicale ma con la presenza, a titolo individuale, di alcuni intellettuali di area. Le liste laiche facenti capo alla Federazione (5), che avrebbe dovuto rappresentare il germe di una nuova forza, naufragarono però al momento del voto da cui risultarono in tutto eletti per il PRI e il PLI solo tre parlamentari europei compreso Pannella.

Quell'iniziativa fallì, in buona misura per la scarsa convinzione del segretario repubblicano Giorgio La Malfa e di quello liberale Renato Altissimo nei confronti di un progetto che andava al di là dei consueti cartelli elettorali, ma anche, se pure in misura minore, per l'ambiguità della manovra pannelliana. Il leader radicale non volle portare nelle liste laiche, oltre la propria candidatura, anche il peso organizzativo e l'influenza radicale perché ritenne di poter giocare su altri tavoli elettorali in contemporanea all'intesa con i laici, dominando così e influenzando una gamnìa di situazioni tutte riconducibili alla sua persona.

 

Perciò alcuni qualificati esponenti radicali - Adelaide Aglietta, Francesco Rutelli e Franco Corleone - furono incoraggiati a presentarsi sotto le bandiere ambientaliste dove costituirono le liste Verdi arcobaleno che riportarono un discreto successo. Giovanni Negri, già brillante segretario del Partito Radicale, fu inviato in casa socialdemocratica con la pretesa di irrobustire l'autonomia di quel partitino a fronte delle volontà annessionistiche del PSI, senza che però riuscisse a farsi eleggere nonostante il notevole dispiego di risorse. Da ultimo, lo stesso Pannella promosse all'ultimo momento la formazione di una nuova e inedita lista antiproibizionista composta esclusivamente di militanti radicali non di primissimo piano, guidati da Gino del Gatto e Marco Taradash, lista che dall'elettorato fu riconosciuta come la presenza elettorale più radicale e perciò premiata con quattrocentomila voti e un eletto (6).

Quell'elezione dell'89 fu la prima sperimentazione della strategia transpartitica ma anche l'ultima concepita da Pannella in maniera articolata. Risultò che l'interpretazione del dettato transpartitico non comportava l'assenza dalle elezioni ma, al contrario, la presenza di radicali come animatori all'interno di altre liste oppure, in alternativa, la formazione di nuovi raggruppamenti elettorali fuori dai consueti schemi di partito. Ma la realizzazione di questa strategia doveva essere affidata esclusivamente all'iniziativa del capo radicale, il quale, dopo le europee, tentò più volte di sperimentarla su scala locale, sia presentandosi all'interno di liste di partito (all'Aquila con il PCI), che dando vita a liste cosiddette "laiche, civiche e verdi" (con successo a Catania); oppure ricorrendo alla formazione di liste antiproibizioniste (con scarso successo a Roma). Ogni volta Pannella voleva dimostrare di poter fare politica in prima persona alla testa di alleanze di diverso tipo senza tuttavia dovere usare il simbolo radicale.

Ma già dopo un paio di anni di tentativi, la strategia transpartitica risultò una scommessa perduta. Il rimescolamento delle carte politiche, così tenacemente perseguito, non avveniva né in accordo con i laici, arroccati nei rispettivi partitini, né in dialettica con il PSI di Craxi, ormai pienamente immerso nelle pratiche di potere, e neppure intorno al PCI che pure aveva assunto la nuova denominazione di Partito Democratico della Sinistra. Infatti, nonostante un'iniziale apertura sancita da Achille Occhetto, il PDS non avanzò nel processo di trasformazione che avrebbe avuto bisogno dell'innesto di tradizioni politiche e di classi dirigenti effettivamente diverse da quelle comuniste. E’ per ciò che Pannella si trovò a concorrere da solo nella competizione politica del '92, così come aveva fatto in alcune elezioni locali. Ripiegò sulla promozione di liste personalizzate - Liste Pannella (7) - che, alla prova dei fatti, non furono altro che il cattivo surrogato, per composizione per prestigio e per risultati, delle precedenti liste del Partito Radicale.

In definitiva l'esperimento transpartitico, ben lungi dal provocare la riorganizzazione degli altri partiti sull'esempio radicale, provocò l'effetto opposto di far scomparire la presenza organizzata dei radicali senza che si avviasse alcunché di nuovo. Molti di coloro che erano stati sospinti verso l'arcipelago verde - tra cui Rutelli, Aglietta e Corleone -, continuarono in quella sede il loro impegno politico autonomo secondo una logica centrifuga inevitabilmente connessa con il transpartitismo, mentre lo stesso Pannella era costretto a ricreare uno strumento di intervento politico sulla scena italiana, attraverso un gruppo-movimento intitolato a se stesso che si presentava in ogni possibile occasione elettorale.

 

Rimaneva nel Partito Radicale la dimensione transnazionale da cui emanavano alcuni progetti e iniziative significativi: per l'ex Jugoslavia, per il diritto all'ingerenza in difesa dei diritti umani, per l’istituzione di un tribunale internazionale sui crimini di guerra, per il Tibet, una nuova normativa internazionale in materia di droghe, e per l'abolizione della pena di morte. Certo, si trattava di nobilissime cause che rendevano il Partito Radicale, più che un organismo politico, un qualcosa di assai simile a una lobby politico-umanitaria; e infatti nel '95 gli giunse dalle Nazioni Unite il riconoscimento e lo status di "organizzazione non governativa".

Ma anche in questa dimensione, la vita del Partito Radicale non più soggetto di quotidiana politica nazionale ma quasi una sua appendice "nobile", rimaneva gracile. I non italiani che si iscrivevano al partito transnazionale erano pochi (8), tutti provenienti dai paesi dell'Europa orientale - Russia, Bulgaria, ex Jugoslavia, Albania e Ungheria -, e con i diversi gruppi geografici che stentavano ad acquisire una qualsiasi rilevanza politica locale. Non si avverava l'auspicio a lungo coltivato che si formassero nuove classi dirigenti, al di fuori di quelle tradizionali italiane, con forza propria e in grado di guidare i vari nuclei disseminati nell'Est.

In sostanza, il Partito Radicale transnazionale e transpartitico non riusciva a crescere oltre la logica in tutto e per tutto italianocentrica e pannellocentrica, sicché le stesse adesioni di esponenti politici e parlamentari delle neonate democrazie esteuropee, sollecitate dalla simpatia per qualche specifico obiettivo, si configuravano piuttosto come atti individuali, talora di alto contenuto simbolico come nel caso del sindaco di Sarajevo, ma pur sempre di tipo solidaristico. Anche l'esilissima struttura organizzativa transnazionale rimaneva tutta in mani italiane che provvedevano a esportare qui e lì direttive sempre elaborate nell'unico centro motore dell'iniziativa che rimaneva a Rorna.

 

 


Vittorini, Pasolini e Sciascia tra comunisti e radicali

Il Partito Radicale non era stato sempre cosi personalizzato nella figura del suo capo come divenne alla fine degli anni ottanta in occasione della dispersione transpartitica e transnazionale. Aveva nel corso del tempo esercitato una straordinaria attrazione, paragonabile soltanto a quelle del Partito d'Azione del dopoguerra e del PCI dei tempi migliori. Gente comune e note personalità avevano subito il fascino di un movimento in cui effettivamente, e non nominativamente, si faceva politica diversa, senza dovere sottostare alla logica del potere e dell'opportunismo realistico penetrati, oltre che nella DC, anche nelle forze laiche, liberali e democratiche e nella sinistra tradizionale. Per tanta gente i radicali avevano rappresentato una vera e propria riserva di speranza in un panorama politico fortemente inquinato dalla corruzione e dalla caduta di qualsiasi tensione ideale.

E’ vero che in buona misura quell'attrattiva derivava dalla personalità del leader Pannella, dal suo disinteresse privato e dalla sua capacità di articolare con suggestione posizioni pubbliche che si levavano al di sopra della mediocrità; e che l'attrazione si concretava in iscrizioni al partito, in adesioni a specifiche battaglie e perfino nella partecipazione alle liste elettorali della rosa nel pugno. Ma questo interesse suscitato dai radicali, non di rado era soggetto a logorio, tramutandosi nel suo contrario, e particolarmente in avversione contro Pannella.

Nel corso di un ventennio molte e talvolta prestigiose furono le personalità, tra cui alcuni importanti intellettuali, che avvertirono il richiamo radicale. Non può sfuggire che Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, tre grandi scrittori eretici passati attraverso un'esperienza di attrazione e repulsione con il mondo comunista, stabilissero in decenni successivi un rapporto intenso e speciale con i radicali, accomunati verosimilmente non solo da una fortuita coincidenza. Erano forse alla ricerca, in maniera singolarmente parallela, di un movimento che fosse portatore di idee-forza per trasformare l'Italia. L'interesse dei tre maggiori intellettuali civili del dopoguerra verso il Partito Radicale può essere considerato una specie di cartina di tornasole dello spessore delle proposte avanzate dalla minoranza radicale, nonostante il suo scarso peso politico nel mondo politico tradizionale.

Elio Vittorini dimostrò il suo interesse negli ultimi anni di vita quando accettò di presiedere l'organismo dirigente di un rinato Partito Radicale a guida pannelliana, costituito da un piccolo gruppo di giovani. Curando l'opuscolo Il voto radicale, edito in occasione delle elezioni politiche del '63, così prendeva le distanze dai maggiori partiti della sinistra: "I socialisti svolgono la loro attuale politica di centro-sinistra in base alla vecchia impostazione togliattiana che transigeva su tutte le questioni laiche pur di potere collaborare con i cattolici. E i comunisti rimangono ben lontani, nel modo in cui conducono la loro opposizione, dal dare quelle rassicurazioni di carattere "culturale" (di carattere globalmente storico) che noi ci troviamo, in mancanza d'altro, a cercare in loro" (9).

Anche Pier Paolo Pasolini, che pure era così impregnato di populismo marxista, avverti la straordinarietà radicale nella stagione in cui intensificò il suo impegno civile di grande accusatore del Palazzo. Lo scrittore sottolineò la capacità radicale di rinnovarsi continuamente attraverso una testimonianza che avrebbe dovuto rendere direttamente il 3 novembre 1975 al congresso radicale, se quella notte non fosse stato assassinato alla periferia di Roma: "Sono qui come marxista che vota per il PCI... che spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali... Siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne di cultura dappertutto: al centro delle città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicano, e neanche - ed è tutto dire - di fascisti... Contro tutto questo voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa a essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi con i diversi; a scandalizzare; a bestemmiare" (10)

Dal canto suo, Leonardo Sciascia, deluso dall'esperienza comunista, accettò di militare all'insegna della rosa nel pugno, divenendo nel '79 parlamentare italiano ed europeo: "Accettando di essere candidato del Partito Radicale nelle prossime elezioni per A parlamento nazionale ed europeo, so di contraddirmi rispetto a dichiarazioni che - anche recentemente ho fatto sulla mia vocazione e decisione di essere soltanto scrittore" (11). Il suo contributo non fu quello del prestigioso compagno di strada, bensì dell'intellettuale che alimentò con originalità il pensiero radicale sul diritto e sulla giustizia, identificandovisi appieno in polemica con i dirigenti comunisti del tempo. "Per quel che il PR nella sua nonviolenza vuole e tenta di fare e fa - scriveva nel giugno '80 - credo si possa usare il verbo rompere in tutta la sua violenza morale e metaforica. Rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto tra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane; rompere l'equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuole dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che si prepari la letale frittata; e così via ... " (12).

Ma oltre ai tre grandi eretici, furono numerose altre le personalità che entrarono in contatto politico con i radicali e che però, in molti casi, se ne allontanarono. Basta scorrere le liste elettorali via via preparate in un ventennio: nel '76 vi si incontra Maurizio Costanzo; nel '79, oltre a Sciascia, risaltano i nomi del filosofo Gianni Vattimo, del letterato Carlo Ferdinando Russo, dei giornalisti Gianluigi Melega e Alfredo Todisco, degli scienziati Adriano Buzzati Traverso e Bruno de Finetti e delle scrittrici Fernanda Pivano e Barbara Alberti. Sono approdati a candidature radicali l'ex socialista Aldo Ajello poi alto funzionario dell'ONU, Marco Boato, Mimnio Pinto e Pio Baldelli ex lottacontinuisti eletti nella rosa nel pugno, l'ex comunista Maria Antonietta Macciocchi, l'ex suora Marisa Galli. Enzo Tortora non solo fu eletto con il Partito Radicale al Parlamento europeo nell'84, ma ne divenne presidente quale simbolo della lotta per la giustizia giusta, salvo poi allontanarsene per contrasti con Pannella. Analogamente accadde con il cantante Mimmo Modugno eletto deputato, con il giornalista-scrittore Sergio Turone e con il "difensore civico" Alberto Bertuzzi, mentre Bruno Zevi, deputato e presidente del partito nel '90, fu promosso e rimosso a presidente "onorario" allorché il partito fu messo in regime commissariale per meglio portarne a termine la liquidazione.

E’ significativo il fatto che tutte le volte che venivano lanciati appelli per la sopravvivenza radicale, non erano poche le personalità che manifestavano il loro sostegno, come nel caso della campagna "o lo scegli o lo sciogli" tra l'autunno '86 e la primavera '87. In tanti scelsero con l'iscrizione al PR, affinché divenisse un più robusto protagonista della politica italiana: tra i giornalisti Paolo Franchi, Luigi Irdi, Giampaolo Vitale, Salvatore Rea, Carlo Gregoretti, Nicola Caracciolo, Vanna Barenghi e Nicky Grauso; nel mondo della cultura e dello spettacolo, il pittore Piero D'Orazio, Dario Argento, Franco Brusati, Giorgio Albertazzi, Ilaria Occhini, Ugo Tognazzi, Franco Battiato e Claudio Villa e Vincino; dal mondo del diritto e della giustizia, Mario Boneschi, Titta Mazzucca, Fulvio Gianaria e, ancora, Adriano Sofri e Alex Langer e gli esponenti israeliti Giorgio Sacerdoti e Federico Steinhaus insieme a tanti altri. Certo, le adesione di intellettuali e personalità di spicco non erano politicamente significative se non per quel che simbolicamente esprimevano circa l'interesse che l'esperimento radicale riusciva a suscitare negli strati più avvertiti. Ma anche di quell'ultima campagna contro lo scioglimento, in cui il Partito Radicale avrebbe potuto irrobustirsi con le tante e autorevoli adesioni, poco o nulla rimase dopo qualche tempo: come il consenso arrivava a ondate successive, così svaniva dopo un breve momento di entusiasmo e successo.

Sembrava quasi che il partito procedesse a strappi, in avanti e in dietro, e che fosse guidato da una mano che prevedeva un perenne avvicendamento nella rottura d'ogni continuità ad eccezione dell'unico punto fisso rappresentato dalla leadership pannelliana. Ogni volta si ripeteva il ciclo di una spasmodica ricerca di adesioni perché il PR potesse rinverdire la sua immagine, ma mai si consentiva che sedimentasse un'effettiva forza politica, una struttura duratura e un gruppo dirigente riconoscibile. Al fondo l'idea del partito, per Pannella, era .quella di un satellite artificiale continuamente degradabile che doveva sempre orbitare intorno al sole immobile della sua persona.

 

 


La liquidazione del gruppo dirigente

Il transnazionalismo e il transpartitismo non volevano dire soltanto la fine dell'azione politica e della presenza elettorale radicale in Italia: rappresentavano anche l'accelerazione del processo di liquidazione della classe dirigente radicale formatasi nel corso degli anni intorno a una delle più originali esperienze dell'Italia repubblicana. Nel periodo che va dal congresso di Budapest (primavera '89) alle elezioni politiche (primavera '92), quando non comparve più sulla scheda la "rosa nel pugno" ma l'emblema del Movimento Pannella, si consumò una diaspora degli esponenti che non ha precedenti se non nello scioglimento del Partito d'Azione nel dopoguerra. Fu il leader in prima persona a promuovere energicamente l'allontanamento dei quadri radicali, nella convinzione che sarebbe stato impossibile rivoltare il partito che aveva messo radici nella realtà italiana, fintantoché i suoi esponenti avessero continuato a fare politica in suo nome.

La scelta distruttiva fu lungamente e lucidamente meditata: per attuarla Pannella non esitò a ricorrere ad aspre forzature anche nei confronti dei suoi più antichi e migliori compagni. Era mosso da una complessa volontà in cui si intrecciavano convinzioni politiche e pulsioni personali volte a configurare la realtà a propria immagine e somiglianza. Riteneva che il gruppo dirigente radicale avesse subìto nel corso del tempo una mutazione che aveva trasformato il partito dei militanti in qualcosa d'altro: e, dunque, per recuperare la tensione originaria occorreva, a suo avviso, eliminarlo e far maturare nuove energie sotto la sua esclusiva guida. In cuor suo Pannella pensava che le personalità più significative del gruppo dirigente gli fossero d'intralcio e indebolissero in qualche modo l'unicità della sua leadership di fronte agli interlocutori; e riteneva che in ambito radicale non dovessero essere ammesse interpretazioni politiche che non fossero piattamente ripetitive delle sue direttive. Soprattutto dopo che il partito si era sviluppato e aveva messo radici, il leader carismatico - non a caso così unanimemente definito - nutriva il forte desiderio che l'intero patrimonio radicale, passato presente e futuro, si identificasse con la sua persona, senza che anche altri potessero rappresentare il nuovo radicalismo liberale. In breve, "radicale" e "Pannella" dovevano essere termini sinonimi intercambiabili, e l'intero universo radicale doveva essere identificato con il leader lasciando, tuttalpiù, angusti spazi di movimento solo a coloro che erano disposti a reiterare correttamente il suo pensiero. Così, quando il Partito Radicale, senza nulla cambiare nella sostanza, divenne Movimento Pannella, si compì quella profonda spinta di completa e assoluta personalizzazione che era stata a lungo coltivata.

 

Quest'atteggiamento che da sempre covava nel Partito Radicale come una sorta di statuto non scritto, divenne dominante alla fine degli anni ottanta quando ancora operava un nucleo di agguerriti dirigenti sia nel paese che in Parlamento. Se il PR non si era sviluppato come avrebbe potuto, a causa del saldo in pareggio tra coloro che vi entravano e coloro che ne uscivano, non altrettanto ingessata era la situazione del gruppo dirigente ben sperimentato, apprezzato e riconosciuto come tale. Diversi eletti della rosa nel pugno venivano accreditati per una notevole capacità di azione parlamentare e gran parte dei quadri militanti erano identificati come impareggiabili animatori di iniziative radicali, ecologiste, nonviolente e libertarie.

La definitiva dispersione di quel significativo patrimonio politico e umano si attuò quando il progetto di dissoluzione partitica divenne una decisione congressuale. Gli esponenti che nelle elezioni europee dell'89 erano passati ai Verdi, vennero incoraggiati a fuoriuscire definitivamente dal mondo radicale: si allontanavano Francesco Rutelli, ex segretario nazionale ed ex presidente del gruppo parlamentare che sarebbe poi divenuto sindaco di Roma, Adelaide Aglietta che era stata con grande senso di responsabilità al vertice partitico e parlamentare, e Franco Corleone, deputato di tre legislature che sarebbe divenuto portavoce dei Verdi. Ancora prima, un fondatore del Partito Radicale, Mauro Mellini, che aveva vigorosamente contribuito al divorzio e alle campagne per la giustizia, fu progressivamente emarginato e quindi indotto ad abbandonare la sua antica appartenenza. Giovanni Negri, anch'egli ex segretario nazionale e brillante giovane parlamentare italiano ed europeo, dopo essere stato inviato in partibus infidelium socialdemocratiche, abbandonò il partito divenuto nel frattempo Movimento dei Club Pannella e, nel '92, contribuì a dar vita alla lista referendaria di Massimo Severo Giannini. Successivamente ma inesorabilmente si ritirarono Roberto Cicciomessere, che si dedicò con Agorà all'informatica, Gianluigi Melega che da giornalista aveva dato un'ottima prova parlamentare, e tanti altri ancora.

Uno dei distacchi più gravi e dolorosi per l'intero ambiente radicale fu, senza dubbio, quello di Gianfranco Spadaccia, compagno della prima ora di Pannella e artefice della ricostruzione del nuovo Partito Radicale negli anni sessanta. Dopo essersi dimesso nel '90 dal Senato in cui era stimato capogruppo, provò a proseguire in autonomia la sua lunghissima e fedele milizia radicale, ma dopo alcuni tentativi si ritirò dalla politica, adducendo l'impossibilità di operare nella difficile situazione creata dall'avversione di Pannella (13), il quale, dal canto suo, non esitò a privarsi volontariamente del più stretto e valido collaboratore. Io stesso, che avevo animato l'iniziativa radicale nelle inchieste parlamentari negli anni ottanta, fui richiesto di abbandonare il Parlamento contemporaneamente a Spadaccia e sostanzialmente messo in condizione di fuoriuscire dalla politica radicale.

Con tali abbandoni si andava compiendo il disegno pannelliano di azzeramento della classe dirigente. Ne risultò un autentico sperpero con l'interruzione di un'esperienza politica unica che indusse un numero sempre maggiore di militanti ad abbandonare l'impegno pubblico o a migrare senza entusiasmo in altri gruppi politici. Solo in quella particolarissima combinazione di attitudini e sentimenti, di capacità e volontà che era stato per una ventina d'anni il Partito Radicale, si era potuto realizzare il miracolo della ricostruzione e del rilancio di una politica liberale non moderata che era riuscita a conseguire straordinarie conquiste.

Da allora i pochi esponenti radicali rimasti in campo non potevano che acconciarsi ad applicare fedelmente nell'ambito di un movimento fortemente personalizzato le direttive di Pannella. Ma dalla diaspora derivò un'altra conseguenza: l'impoverimento dell'intera politica italiana proprio nel momento in cui si producevano profonde trasformazioni che avrebbero richiesto l'intervento di energie politiche competenti e non compromesse. Quel che in politica fa la qualità complessiva di una forza, non è tanto la somma dei singoli apporti o il vigore di una leadership solitaria, quanto il modo in cui i contributi individuali interagiscono tra loro e tutt'insieme con colui che ha funzioni leaderistiche. Fino all'89 il Partito Radicale era stato, nel meglio e nel peggio, una felice combinazione di molti e diversi fattori da cui aveva tratto alimento una forza politica con un peso politico molto più incidente del suo peso elettorale. Una volta scomparse quelle condizioni, nonostante i periodici appelli di Pannella per raccogliere intorno a sé e al suo movimento nuove energie, militanti di diversa origine e intellettuali di spícco, non si sarebbe più ricostituito un gruppo cosi speciale, come era stato quello radicale, né si sarebbe sviluppata un'equivalente forza politica.

La disgregazione del più importante gruppo dirigente liberal-riformatore attivo nella politica militante mai costituitosi in Italia sin dai tempi del Partito d'Azione avrebbe pesato sull'esito della crisi della Repubblica. Con il crollo dei partiti laici e lo spappolamento del Psi, l'unica personalità di quell’area, con le carte in regola per non essere travolta dal crollo della partitocrazia, e con i numeri per divenire un punto di riferimento per liberali e riformatori, avrebbe potuto essere Marco Pannella. Ma a leader radicale, rimasto per scelta solo, senza un partito ma con un movimento personale e senza una classe dirigente ma con un pugno di seguaci, non è stato più in condizione di esercitare efficacemente la leadership al di fuori di un ristretto circolo. Le sue iniziative sono continuate nella rigorosa tradizione radicale ma ogni volta stentavano ad affermarsi. Ed è proprio questa, probabilmente, una delle ragioni - se non la ragione - per cui Pannella non è riuscito a imporsi come leader nel momento del crollo della Prima Repubblica. Se si considera che sono passati indenni nella nuova stagione non solo D'Alema e Fini, che avevano dietro di sé partiti ben strutturati come il PDS erede del PCI e AN erede del MSI, ma anche personaggi non proprio di prima linea provenienti dalla DC, è paradossale che non un solo esponente laico e riformatore abbia esercitato una funzione rilevante nell'era postproporzionalistica e postdemocristiana, e tra questi neppure Pannella sia riuscito nell'intento.

Si può discutere all'infinito se è destino che in Italia coloro che esprimono, posizioni intransigenti debbano essere necessariamente relegati al minoritarismo e all'isolamento, cosi come è opinabile ritenere che il corso degli eventi sarebbe stato diverso se Pannella, invece di presentarsi "sguarnito", fosse arrivato alla svolta del '94 "guarnito" di un partito e di un gruppo dirigente. Come si sa, la storia anche recente non si può fare con i "se". Certo è però che i grandi consensi che i radicali ottennero in alcuni momenti felici e le tante adesioni raccolte ancora nell'87, erano indirizzati a un partito che rappresentava qualcosa di più di un semplice personaggio-leader, pur se d'indiscussa qualità. Forse è da ricercarsi proprio qui il motivo per cui i frutti della lunga semina radicale del liberalismo riformatore, quando è arrivata la nuova stagione, non sono stati raccolti da coloro che ne avevano i titoli.

 

 


Tra bipartitismo e piccolo gruppo

Per Pannella non è stato un accidente il ritrovarsi leader solitario ai margini della scena politica nel momento del tramonto della prima Repubblica. Ha rappresentato l'approdo di un percorso contraddittorio, stretto tra una certa idea della politica italiana e un modo di intendere la propria funzione di leader nazionale. Se si tenta un bilancio del radicalismo pannelliano, ci si imbatte inevitabilmente in un nodo che si ripresenta nei momenti di successo come in quelli di smacco del leader: una sorta di schizofrenia politica che segna la distanza tra gli obiettivi che intende perseguire e gli strumenti che impiega.

Da tempo il modello di democrazia che Pannella inseguiva era il bipartitismo "all'inglese" o "all'americana", come aveva spesso reiterato ben prima dell'ultima stagione quando la riforma elettorale e la riorganizzazione partitica sono divenute attuali. Per combattere la frantumazione partitica generata dal proporzionalismo e per sconfiggere la conseguente corruzione istituzionale, la sua ricetta consisteva in una riforma della politica riguardante una modifica degli istituti atti a favorire il passaggio dalla democrazia della consociazione alla democrazia dell'alternanza. In questa prospettiva sarebbe stata necessaria la formazione di due grandi partiti moderni, uno conservatore e l'altro riformatore, mettendo da parte le appartenenze ideologiche e dando vita a raggruppamenti all'interno dei quali potessero convivere persone di diversa estrazione unite solo dagli obiettivi politici.

Se questo era il quadro di riferimento concettuale in cui si iscriveva il disegno riformatore, ne conseguiva la necessità di provocare in Italia la rottura del tradizionale equilibrio basato sui due maggiori partiti - la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista - con il contorno dei partiti minori alleati e la creazione di un diverso assetto. Sarebbe stato necessario dar vita a una nuova forza politica riformatrice che sostituisse il PCI o risultasse dalla sua profonda trasformazione in senso democratico-occidentale. Il modello di questo disegno strategico si scorgeva nell'evoluzione della politica francese degli anni settanta: dapprima François Mitterrand aveva trasformato il Partito Socialista, poi era stato riequilibrato il rapporto tra sinistra non comunista e comunisti, quindi il polo riformatore con Mitterrand si era candidato alla guida del paese grazie al presidenzialismo bipolare.

 

Ma, in Italia, chi poteva essere il Mitterrand? Nel momento della crisi del compromesso storico alla fine degli anni settanta, sia Pannella che Craxi avrebbero potuto interpretare la parte di leader di una sinistra democratica e riformatrice, alternativa, non consociata con la DC e competitiva con il Partito Comunista. Entrambe le personalità possedevano alcuni numeri per esserlo. Craxi aveva disincagliato il debole Partito Socialista dalle secche di una lunga subordinazione al PCI e alla DC; Pannella aveva ricostruito una combattiva postazione liberalriformatrice intorno ai diritti civili e alle battaglie di libertà. Sia il socialista che il radicale avrebbero potuto federare i vari spezzoni laici, liberali, democratici e socialisti che per un quarto di secolo si erano combattuti, lasciando l'egemonia nel paese in mani cattoliche e comuniste. Avrebbe potuto portare a compimento quest'opera di trasformazione del sistema politico quello tra i due - Craxi o Pannella - che avesse scelto la migliore strategia politica e avesse dimostrato di sapere esercitare una leadership al di là dei recinti dei rispettivi partiti.

La vicenda craxiana è troppo nota per doverne qui richiamare la rovinosa parabola: il segretario del PSI preferì puntare sulla dimensione di potere del partito ricalcando quella strategia di occupazione della società e delle istituzioni che connotava i suoi avversari, DC e PCI. Non divenne perciò il leader di un grande schieramento riformatore né il federatore della sinistra non comunista, ma andò sempre più alla deriva causando, alla fine, la disintegrazione dello stesso socialismo organizzato. Pannella, invece, dopo aver perseguito negli anni settanta la strategia dei diritti civili, continuò nel decennio successivo a far politica con il piccolo Partito Radicale, accentuandone però la dimensione profetica. Così, quando il logoramento della prima Repubblica arrivò al punto terminale, nessuno dei due personaggi che un decennio prima erano sembrati potenziali candidati alla leadership dei riformatori, riuscì a compiere l'impresa: Craxi per le ragioni conosciute, e Pannella per le scelte di comportamento politico che via via andò compiendo in solitudine.

Fin dall'inizio in Pannella erano convissute potenzialità di leadership suscettibili di diversa evoluzione: in un senso avrebbe potuto guidare una forza politica, punto di attrazione di un più vasto e significativo schieramento riformatore e, in un altro senso, avrebbe potuto esaltare la sua vocazione di profeta che parla direttamente alla gente senza mediazioni politiche e la sua attitudine da capotribù seguito da un manipolo di fedeli pronti a tutto. Insomma in lui avrebbe potuto avere la meglio l'una o l'altra personalità leaderistica, nel caso in cui fosse prevalso l'interesse ad organizzare una forza politica liberalsocialista moderna e non niinoritaria, quale un Mitterrand all'italiana, oppure se fosse esplosa quella pulsione fortemente individualistica un po' da Gandhi e un po' da corsaro nero.

 

I risultati elettorali del '79 (al PR il 3,5 % del voto nazionale con punte alte dell'8-10% nelle grandi aree metropolitane, e l'elezione di diciotto deputati, due senatori e tre parlamentari europei) (14) che vennero generalmente considerati come un successo radicale anticonsociativo, non furono tuttavia ritenuti sufficienti da Pannella, si da indurlo a puntare sul Partito Radicale come nucleo riorganizzante della nuova sinistra democratica a vocazione non minoritaria. Ed è perciò che cominciò a prendere il sopravvento il secondo aspetto della sua personalità - quella del profeta e del capotribù - mentre andavano deperendo d'importanza le iniziative del leader politico federatore alla Mitterrand.

Il modo in cui si plasma la personalità pannelliana secondo questo indirizzo è riscontrabde nei temi politicamente prioritari prescelti dopo l'80, a cominciare da quello profetico e apocalittico della fame nel mondo. Quell'anno fu introdotto un preambolo allo statuto che faceva del Partito Radicale una specie di strumento definitivo della disobbedienza civile secondo imperativi categorici assoluti: "Il Partito radicale proclama... il dovere alla disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa - con la vita - della vita, del diritto, della legge... Dichiara di conferire all'imperativo del non uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa" (15).

A voler dare valore a quel documento, come certamente lo aveva nella consapevolezza di Pannella, i radicali non sarebbero più dovuti essere un gruppo che si batteva per obiettivi perseguibili con intese e alleanze, con la ricerca del consenso elettorale e attraverso altre vie politiche tradizionali, ma si sarebbero dovuti configurare quasi come una comunità parareligiosa immersa però nella lotta politica quotidiana, nella quale dovevano far valere con armi estreme i propri valori assoluti. In questa visione Pannella riteneva di poter imporre in Italia una campagna per salvare milioni di bambini affamati con la sola forza di trascinamento, costituendo al tempo stesso un esempio per gli altri paesi sviluppati. Confidava di poter trasmettere un messaggio così alto e difficile diretto particolarmente ad aprire un dialogo con il mondo cattolico: difetti il suo principale strumento d'intervento divenne per un certo periodo il digiuno, la più antica e classica modalità di azione a disposizione del singolo individuo.

Viceversa, la politica dei diritti civili, che era stata la spina dorsale dell'insediamento radicale nel paese e il carattere distintivo della nuova forza liberale e riformatrice a fronte delle culture politiche cattolica e comunista, perse mano a mano di importanza. Quando, per esempio, qualche anno dopo furono avviate le iniziative del caso Tortora e per la giustizia giusta, non ebbero quell'attenzione che meritavano nonostante che la questione sollevata trovasse largo ascolto nel paese. Nello stesso periodo, per l'indisponibilità e l'opposizione di Craxi divenuto presidente del Consiglio, fallirono i vari tentativi di coalizzare i socialisti e i laici in una federazione o un partito federato capace di rappresentare nei contenuti politici e nel peso elettorale un'alternativa riformatrice alla DC e al PCI. Così, con il venir meno del disegno di tipo mitterrandiano, Pannella si rinchiudeva in una leadership solitaria affidata alla sola forza di convincimento personale.

Anche nelle scadenze elettorali, la direzione di marcia del PRdivenne sempre più nevrotico, secondo un andamento più da piccola banda di fedelissimi che segue le decisioni dell'ultima ora del suo capo che non di una forza che ambisce svolgere un ruolo sulla scena politica nazionale. Nell'83 A Partito Radicale optò per il non voto ma poi presentò le liste della rosa nel pugno con una decisione assai contraddittoria. Nell'87, sulla base di un assunto tutto formalistico di non-discríminazione, fu offerto il destro per la perversa trasformazione promossa dai media della pornostar Ilona Staller, in arte Cicciolina, in emblema radicale, con la conseguente dissipazione in un sol colpo di un patrimonio di credibilità faticosamente conquistato. Nell'89 furono impostati tanti giochi su diversi tavoli elettorali che ne derivò una diaspora rivelatasi disastrosa. Nel '92, infine, l'annientamento radicale arrivò a compimento con la sostituzione della rosa nel pugno con l'emblema con la dicitura pannelliana. Erano questi, nel corso del tempo, tutti segni dell'opzione di fondo pannelliana di navigare nella politica italiana con un proprio piccolo vascello personale, piuttosto che impegnarsi nella difficile costruzione di una portaerei capace di traghettare una più solida armata verso ambiziosi obiettivi.

 

Tirando le somme del processo di evoluzione pannelliano, è fondata la sensazione che il leader scambiasse sempre più la possibilità di esercitare un'influenza politica grazie al rigore e al fascino con cui presentava le scelte e i contenuti che gli erano cari, con l'attento ascolto che di volta in volta riceveva o riteneva di ricevere da parte di questo o quell'esponente politico. Insomma la sconfinata fiducia in se stesso lo portava a confondere gli effetti spesso effimeri del suo carisma con il successo della sua linea politica, e a scambiare le attestazioni di simpatia e di stima personale con l'affermazione della sua leadership. Questo equivoco ha dato luogo periodicamente a situazioni paradossali i cui protagonisti sono di volta in volta stati Bettino Craxi, segretario del PSI, e Mino Martinazzoli, leader della DC, poi Giuliano Amato, presidente del Consiglio, e Oscar Luigi Scalfaro, sostenuto alla presidenza della Camera e della Repubblica e, infine, lo stesso Silvio Berlusconi. L'amicizia dimostrata da questo o quel personaggio in un determinato momento, ha fatto illusoriamente credere a Pannella che la sua politica potesse contare su uno specifico e importante sostegno, salvo poi constatare che si trattava di un miraggio.

 

 


Dai referendum, nessuna nuova classe politica

Mentre il Partito Radicale si dissolveva, nelle vene profonde del paese stava maturando una rivoluzione che avrebbe mutato l'intera scena politica. Ne era un sintomo il consenso plebiscitario ottenuto dal referendum del '91 per la preferenza unica (partecipanti 62,2%, votanti "sì" 95,6%), l'unico dei quesiti elettorali antiproporzionalisti ammesso dalla Corte Costituzionale. I ventisette milioni di italiani che si erano recati alle urne per esprimere un voto positivo, in realtà manifestarono, nell'unica maniera possibile, una richiesta di cambiamento e una volontà di liquidazione dei partiti che andavano ben al di là dello specifico quesito referendario. Il sistema era allo sbando e il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sensibile antenna degli umori del paese, inviava al Parlamento un solenne messaggio per richiamare l'attenzione sulla necessità della riforma politicocostituzionale per ricostituire un rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni.

Ammaestrati dalle tante energie che erano state suscitate dai referendum e dall'impatto del voto plebiscitario, alcuni esponenti referendari, tra cui io stesso, ci eravamo fatti la convinzione che quella referendaria fosse la strada maestra per provocare, con la modifica del sistema elettorale, la riforma politica. Solo potenziando e allargando gli obiettivi referendari e costituendo intorno ad essi un inedito schieramento politico riformatore, si sarebbero potute abbattere le vecchie incrostazioni partitiche e aprire una nuova prospettiva democratica superando d'un colpo gli attendismi e gli equilibrismi parlamentari.

Quando, su iniziativa del Comitato per le riforme elettorali (COREL) presieduto da Mariotto Segni, fu avviata nell'estate '91 la seconda campagna per i referendum elettorali antiproporzionalisti, alcuni di noi , esponenti del COREL (16), proposero l'allargamento del pacchetto referendario con l'inclusione anche di quesiti antipartitocratici. Ci muoveva l'idea di costituire una piattaforma d'azione riformatrice con l'inclusione, insieme a quello elettorale, anche di altri bersagli: l'invadenza dello Stato, l'occupazione partitica dell'economia e l'abuso del potere. Ragion per cui, al rifiuto di Segni e di altri cattolici e pidiessini di ampliare lo spettro dell'impegno referendario per farne l'embrione di una ipotesi politica più ampia, decidemmo di costituire un Cornitato per le riforme democratiche (CORID) guidato da Massimo Severo Giannini, con l'obiettivo di organizzare i referendum antipartitocratici pur mantenendo la collaborazione con il comitato segniano.

Intorno a quelle diverse ma convergenti iniziative referendarie si mobilitarono in tutt'Italia centinaia di gruppi che spesso non si identificavano con alcuna specifica appartenenza politica, ma si richiamavano a entrambi i comitati - Segni e Giannini - a cui si aggiunsero in un secondo momento anche i gruppi pannelliani impegnati a raccogliere le firme su un terzo pacchetto di referendum. Pertanto, nel gennaio '92, giunsero in porto ben dodici referendum che avevano superato la soglia delle cinquecentomila firme: tre referendum elettorali del COREL volti ad abrogare le leggi elettorali proporzionali del Senato e dei comuni; tre referendum del CORID per liberare la pubblica amministrazione dall'occupazione partitica nelle partecipazioni statali, nelle banche e nell'intervento straordinario nel Mezzogiorno; e tre referendum pannelliani sulla droga, sul finanziamento pubblico ai partiti e su questioni ambientali. I milioni di firme, così facilmente raccolte su tutti i referendum, stavano a dimostrare che l'aspettativa di cambiamento ormai percorreva apertamente ampi strati di opinione pubblica. I referendum fungevano quasi da parafulmine rispetto alla protesta dei tanti cittadini che non avevano altra possibilità di partecipare al processo decisionale se non quella referendaria.

 

Con questi presupposti, allorché nel febbraio '92 furono indette le elezioni politiche anticipate, noi del comitato Giannini decidemmo di concorrere alle elezioni con liste denominate Referendum/Sì, autonome da tutti i partiti tradizionali. La decisione fu assunta dopo che furono svaniti diversi tentativi di formare un'alleanza elettorale tra tutti quei referendari che si erano impegnati a sbloccare la politica italiana. Ci muoveva la valutazione che vi fosse in potenza un diffuso consenso per il partito del cambiamento, fino ad allora manifestatosi solo per via referendaria ma suscettibile di essere captato anche dal voto politico, stante la crisi di tutte le forze politiche di governo e d'opposizione, maggiori e minori. Del resto i segni del possibile terremoto elettorale si andavano moltiplicando, non ultimo il voto che la Lega di Bossi, unico partito nuovo contrapposto a quelli tradizionali, raccoglieva nella Padania. La condizione primaria per convogliare la protesta fluttuante sembrava essere la presentazione di una proposta semplice, esterna al tradizionale sistema dei partiti e sostenuta da una leadership autorevole al di sopra d'ogni sospetto. Quando però provammo a ipotizzare un inedito schieramento elettorale che potesse rappresentare un'alternativa ai vecchi partiti, nessuno degli interlocutori - che aveva i titoli referendari e il profilo necessario per guidare il processo di rinnovamento, ebbe il coraggio di rischiare l'iniziativa di rottura.

Non Mariotto Segni che come leader referendario, esaltato in quel momento da tutti i mezzi di comunicazione di massa, era nelle migliori condizioni per capeggiare l'operazione che lo avrebbe portato alla testa del rinnovamento democratico. Non se la senti di rompere con la casa madre democristiana, volendo mantenere i collegamenti con il retroterra cattolico ma rinunziando - in tal modo a farsi leader dei referendari innovatosi presenti anche nel PDS, PRI e PLI. Optò invece per un irrilevante Patto (17) tra candidati inseriti nelle liste tradizionali che ben presto si rivelò niente altro che una pura facciata dietro la quale poterono dispiegarsi le consuete pratiche trasformistiche.

Non volle aprirsi a un progetto di ampio respiro che implicasse intese elettorali neppure Marco Pannella. Non riuscì a vedere quale accelerazione avesse assunto il processo disgregativo della Repubblica, e pertanto preferì la solitaria presenza elettorale con una lista personalizzata che ottenne l'1,2% dei voti, un ben modesto risultato se si considera che il leader radicale era stato l'inventore e l'animatore della strategia referendaria. Allo stesso modo non vollero uscire dal guscio dei loro rispettivi partiti, interessati solo a conservare una piccola rendita elettorale connessa con il sistema proporzionale, anche i segretari del PRI, Giorgio La Malfa, e del PLI, Renato Altissimo, ai quali pure fu proposto di confluire con i loro limitati patrimoni elettorali in un più ampio e rinnovato schieramento riformatore referendario.

 

Fu per questo che il gruppo Giannini si assunse da solo la responsabilità di presentare le liste referendarie. Nel momento in cui tutti i protagonisti dei referendum ripiegavano nelle rispettive formazioni tradizionali, fu azzardata un'impresa politico-elettorale di grande difficoltà. I consensi che inizialmente si riversarono sull'ipotesi di liste sganciate dai partiti furono numerosi, significativi e promettenti. Sottoscrissero un appello di sostegno il Nobel Rita Levi Montalcini, il noto fiscalista Victor Ukmar insieme con Massimo Severo Giannini che per la prima volta, dopo cinquant'anni, entrava direttamente in lizza elettorale impegnando il suo autorevole e disinteressato patrocinio. Insieme a loro entrarono nel comitato promotore il liberale e liberista Antonio Martino e l'intellettuale della sinistra democratica postcomunista Ferdinando Adornato che si affiancavano ai liberaldemocratici Ernesto Galli della Loggia e Marcello Pera e ai tre parlamentari radicali, Giovanni Negri, Peppino Calderisi e me stesso.

La "lista Referendum" si presentava con una limitata piattaforma d'azione politica: a) la difesa di tutti i referendum per sottoporre al voto popolare un ampia gamma di temi non graditi ai partiti; b) la riforma della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria-uninominale; e c) la lotta alla partitocrazia su tutti i fronti esemplificata dai referendum Giannini. A guidare le liste circoscrizionali, oltre ai promotori, si raccolse una folta e variegata schiera di personalità: lo storico dell'arte Federico Zeri, l'intellettuale liberale Nicola Matteucci, il filosofo Giacomo Marramao, Lisa Giua Foa libertaria di nuova sinistra, l'ambientalista Francesco Mezzatesta, il presidente onorario della Corte dei Conti Onorato Sepe, i magistrati Celestino Zeuli e Vincenzo Vitale, le femministe Carla Sepe e Ginevra Conti Odorisio, e tanti altri ancora. Il carattere della lista risultava anticipatore in quanto, per la prima volta, erano deliberatamente infrante le omogeneità di appartenenza e intorno a un innovativo se pur limitato programma di azione politica si raccoglievano personalità diverse, di destra o di sinistra, tutte rigorosamente estranee alla logica partitocratica. E fu proprio questo carattere dell'iniziativa, per così dire "rivoluzionaria", che suscitò la diffidenza concentrica dei partiti tradizionale - dal PDS al PSI, dal PRI al PLI - e degli stessi esponenti referendari dei partiti che scorgevano in quello stile innovativo un germe disgregante degli equilibri consolidati.

 

Le elezioni del 5 aprile 1992 determinarono, come previsto, un terremoto. La Lega di Bossi ottenne oltre tre milioni di voti; i tre partiti maggiori - DC, PDS e PSI -, che in precedenza avevano raggiunto complessivamente l'84% dei voti, scesero al di sotto del 60%. Le liste Giannini ottennero quasi l'1% del voto popolare e nessun eletto in Parlamento poiché per poche migliaia di voti fallirono il quorum in un collegio elettorale mentre in alcune grandi città, in special modo Roma, Torino e Bari, conseguirono prove relativamente lusinghiere. Fu subito chiaro che diversi e concorrenti erano stati i fattori che avevano contribuito al loro fallimento: la generale ostilità delle altre forze politiche che esorcizzarono un precedente che avrebbe potuto scompaginare le impermeabilità partitiche; il silenzio dei mezzi di comunicazione di massa; e la ristrettezza del tempo insieme con l'indisponibilità di finanziamenti con cui l'operazione fu condotta a termine.

Furono meno di sessanta i giorni di cui i promotori poterono disporre per prendere la decisione iniziale, impiantare la modesta organizzazione, formare le liste ex novo e apprestare i minimi mezzi di propaganda. E il totale delle risorse finanziarie disponibili non superò i seicento milioni, interamente raccolti tra una decina di promotori e un centinaio di sostenitori individuali che generosamente vollero autofinanziare l'impresa. Si aggiungeva il fatto che molti di coloro che pure potevano ritenersi vicini all'esperimento Giannini, si adoperarono perché non andasse in porto, ritenendo che il regime dei partiti e partitini potesse ancora durare a lungo nel vecchio equilibrio. Anche Pannella, che pure in un primo momento era sembrato favorire la presentazione della lista, nel momento cruciale contribuì con i messaggi allarmistici di Radio Radicale al suo fallimento, probabilmente ritenendo che se l'esperimento fosse riuscito, si sarebbe arrestata la diaspora radicale.

L'insuccesso della lista Giannini assumeva però un significato ben più generale delle ragioni stesse per cui era stata promossa. Dal movimento referendario, che era stato all'origine della rottura del regime dei partiti, non scaturiva alcuna forza politica e alcuna classe dirigente in grado di guidare il rinnovamento del paese. La rinunzia di Segni di mettersi alla testa di un autonomo movimento referendario era il preludio del basso profilo con cui egli stesso avrebbe affrontato le elezioni del '94 con il "Patto Segni" e, quindi, del successivo tramonto della sua stella. La scelta individualistica allora effettuata da Pannella non sarebbe stata in seguito smentita, ma anzi accentuata, nonostante i vari tentativi di uscire dal ghetto in cui si era volontariamente recluso. Le altre personalità politiche, che potevano traghettare la prima Repubblica verso la seconda, cominciarono allora a difendere ostinatamente le loro botteghe partitiche, salvo poi capitolare di fronte all'irruzione del berlusconismo e alla permanenza delle legioni postcomuniste.

Le elezioni della primavera '92 furono le ultime della prima Repubblica e le prime dei tempi nuovi; e per questo la situazione era ancora indefinita e aperta a diversi sviluppi. In quella primissima fase della transizione sarebbe stato agevole per i referendari impostare una nuova forza politica democratica molto più di quanto non lo sarebbe divenuto successivamente con l'entrata sulla scena politica di nuovi protagonisti che erano stati in gran parte estranei al movimento referendario.

 

 


Note

(1) Le citazioni che precedono sono tutte tratte da documenti ufficiali e da appunti presi dall'autore al momento degli eventi.

(2) Il percorso per la costituzione del nuovo partito transnazionale, documento della segreteria del PR mimeografato, gennaio 1991.

(3) Sinistra, non fare come i serbi, intervista di Maurizio Tropeano, "La Stampa", 19 agosto 1994.

(4) Vedi, ad esempio, il capitolo 1989 - Il cuculo, in M. Suttora, Pannella, i segreti di un istrione (on line nel sito).

(5) Per sovrintendere alla federazione laica fu costituito un comitato con rappresentanti non strettamente di partito del PLI (Giulio Giorefio, Antonio Baslini, Paolo Battistuzzi), PRI (Carlo Bemardini, Guido Artorn, Carlo Laurenzi), e radicali (Bruno Zevi, Angelo Panebianco, Massimo Teodori), presieduta da Emesto Galli della Loggia. Tra i candidati d'origine radicale, oltre a Pannella, v'erano Piero Craveri, Gianfranco Dell'Alba, Alexandre De Perlinghi, Piero D'Orazio, Ilaria Occhini, Massimo Teodori e Bruno Zevi. La lista laica conseguì il 4,4% dei voti con tre eletti, tra cui Marco Pannella nella circoscrizione Sud.

(6) Candidati radicali nelle liste Verdi arcobaleno furono Adelaide Aglietta (eletta), Franco Corleone e Francesco Rutelli; nel PSDI, Giovanni Negri, Lorenzo Strik Lievers e Antonio Stango. La lista antiproibizionista aveva come capilista Gino del Gatto e Marco Taradash (eletto) ottenendo l'1,2% del voto.

(7) La lista Pannella, espressione del Movimento dei Club Marco Pannella, di lotte civili', ambientaliste e per la riforma.

(8) Nel '93 gli iscritti al PR erano 42.669 di cui 37.763 italiani; nel '94, 5.283 di cui 3.870 italiani; nel '95, 3.791 di cui 2.982 Italiani. Nel luglio '95 gli iscritti più numerosi divisi per paese erano: Russia 146; Azerbaijan 77; Bulgaria 63; Croazia 60; Romania 55; Ucraina 49; Albania 40; Georgia 34.

(9) Il voto radicale.

(10) P.P. Pasolini, Lettere luterane.

(11) Leonardo Sciascia, Perché con i radicali, "Notizie radicali", 27 aprile 1979; anche in A. Maori, Leonardo Sciascia.

(12) Leonardo Sciascia, "Notizie Radicali", n. 129, 3 giugno 1989.

(13) Dalla lettera di dimissioni di Gianfranco Spadaccia, giugno '91: "Ho maturato la decisione di rinunciare a ogni forma di impegno politica attivo. Ciò è dovuto alla convinzione che, almeno per quanto mi riguarda, non esistono le condizioni soggettive (personali e interpersonali) e oggettive (di praticabilità della lotta politica) perché tale impegno sia produttivo e non invece illusorio, per me e per gli altri"; in "Radicali per la riforma", Roma, 26 luglio 1991.

(14) Alle elezioni politiche del giugno '79 le liste del Partito Radicale ottennero alla Camera diciotto eletti con d 3,5% dei voti, al Senato due eletti con il 2,5%, e al Parlamento europeo tre eletti con il 3,7% dei voti. Questo l'elenco generale degli- eletti: Adelaide Aglietta, Aldo Ajello, Marco Boato, Emma Bonino, Franco De Caesscrel Marcello Crivellini, Adele Faccio, taldo, Roberto Cicciomessere, Marisa Galli, Maria Antonietta Macciocchi, Gianluigi Melega, Mauro Mellini, Marco Pannella, Mimmo Pinto, Franco Roccella, Leonardo Sciascia, Gianfranco Spadaccia, Sergio Stanzani, Massimo Teodori, Alessandro Tessari.

(15) Preambolo allo statuto del Partito Radicale, in I radicali e la nonviolenza.

(16) Comitato per le riforme democratiche (CORTD) Si è Costituito nel settembre '91 e ha promosso tre referendum: abolizione delle nomine bancarie governative, dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, e dei ministero delle Partecipazioni statali, che si sono tenuti con successo nell'aprile '93. Presieduto da Massimo Severo Giannini, del comitato promotore facevano parte: Antonio Baslini, Antonio Bassolino, Ada Becchi (segreteria), Giuseppe Benedetto, Alfredo Biondi, Giorgio Bogí, Peppino Calderisi, Antonio Del Pennino, Mauro Dutto (segr.), Ottavio Lavaggi, Giacomo Marramao, Fabio Mussi, Toni Muzi Falcone, Giovanni Negri (segr.), Massimo Nicolazzi, Piero Pozzoli, Cesare Salvi, Massimo Teodori.

(17) Alle elezioni del 5 aprile 1992, Segni raggruppò nel cosiddetto "Patto" quei candidati di tutte le liste che si impegnavano ad appoggiare in Parlamento il collegio uninominale maggioritario e l'elezione diretta dei sindaco, indipendentemente dalle posizioni dei partiti di appartenenza. Sottoscrissero l'impegno 457 candidati nelle liste DC, PDSI PIU, PLI, Rete, Union Valdotaine, Verdi, e ne risultarono eletti 168: quaranta DC, ottantatré PDS, sette PLI, sedici PRI, cinque Rete, due UV, e due Verdi. Ma, in Parlamento nelle votazione sulle leggi elettorali, non si comportarono difformemente dai gruppi di appartenenza.


CR Critica Radicale - 16/03/13 - E-mail: info@eclettico.org